Hanno gli occhi scanzonati di Palmiro, quelli persi di Ester, la battuta sagace di Mario, la gestualità teatrale di Cristina: con loro abbiamo percorso un tratto della nostra vita e condiviso le giornate al lavoro. Li ha portati via la pandemia del secolo. Per l’attività che svolgiamo conosciamo la morte, evento naturale dell’esistenza, ma ci si accosta ad essa con lentezza, lasciando ai parenti e a coloro che assistono il tempo per accomiatarsi, scegliendo il vestito per l’ultimo viaggio.

Non eravamo preparati alla violenza ed alla rapidità del virus: le nostre strutture, nate per curare, ma anche per garantire una qualità di vita che passa attraverso la socializzazione, il contatto fisico, il rapporto con il mondo esterno, non erano pronte a isolare, dividere, chiudere le porte.

Eppure lo abbiamo fatto: molto prima che ci venisse richiesto, cercando modi per mantenere i contatti con i parenti ed il mondo esterno.

Abbiamo presto capito che era stata fatta una scelta: privilegiare l’ospedale rispetto al territorio. Ce ne siamo accorti quando le forniture di dispositivi di protezione individuali ordinati venivano dirottate altrove, quando non è stato possibile effettuare tamponi ad ospiti e dipendenti per individuare e arginare i focolai, quando le nostre grida e le nostre richieste sono rimaste a lungo inascoltate.

Era evidente che il virus fosse entrato nelle strutture dove le persone sono più fragili, per età e per morbilità, il bilancio sarebbe stato pesantissimo.

Abbiamo vissuto l’angoscia e la responsabilità di quei giorni in solitudine, senza indicazioni, nel silenzio assordante di chi avrebbe dovuto dare quelle informazioni, interrogandoci continuamente su quale fosse la strategia migliore.

I nostri collaboratori sono stati coraggiosi e responsabili: accanto all’immagine dell’infermiera accasciata sulla tastiera che ha spopolato in rete, dovrebbe esserci quella dell’infermiera che, dietro il dispositivo di protezione, sorride e trasmette fiducia all’anziano con gli occhi, non potendolo fare altrimenti.

Abbiamo messo a disposizione una psicologa per aiutare a sopportare la violenza di quello che stavamo vivendo.

“Andrà tutto bene”: ma i dati dicevano altro. C’era la responsabilità per la cura dei residenti e per la tutela della salute degli operatori che rientrando in famiglia potevano essere vettori di infezione. Cosa rimane di questa esperienza? E’ passato troppo poco tempo per rispondere. Per ora rimangono gli occhi e i sorrisi di chi non c’è, il senso di impotenza, la rabbia per non avere potuto fare diversamente e per essere individuati come capro espiatorio, il dubbio che si sarebbero potute salvare persone se si fossero fatte scelte diverse.

Rimangono le lettere dei tanti famigliari che ringraziano per non aver fatto mancare, anche in questo tempo difficile, la cura ma anche l’attenzione e l’affetto; i piccoli, grandissimi, grazie che gli ospiti hanno affidato agli operatori, la voglia di ritornare alla normalità, i gesti di aiuto delle associazioni.

Rimane anche la consapevolezza di uno strumento prezioso, le nostre strutture, dove tanta attenzione è riposta nella cura, ma altrettanta nella relazione e nei rapporti con il territorio, conquistati a fatica ed ai quali non vogliamo rinunciare.

Rimane l’obbligo di non sottovalutare i rischi che ancora esistono, ma anche di ricominciare con fiducia.

                                                                                                        Il Direttore Generale

                                                                                                          Dott. ssa Marina Generali

 

da Avvenire del 07/06/2020